«Non è necessario che le ragazze si iscrivano». Questa frase
campeggiava su un cartello che nel 2009 faceva bella mostra
di sé all'Università della California. Per quanto offensiva possa
sembrare, non è una pratica così inusuale tenere le donne
fuori da faccende che gli uomini giudicano molto maschili
come le scelte formative legate alle discipline STEM: Science,
Technology, Engineering, Mathematics. E mentre le ragazze
sono «indirizzate» a occuparsi d’altro, non possiamo nemmeno
immaginare, perché non abbiamo mai davvero potuto metterlo
alla prova, un sistema socio-economico-politico globale
realmente paritario. Reiteriamo lo stesso modello di cui siamo
figli e in cui da un lato c’è «la società» e dall'altro centinaia
di iniziative «al femminile», come se la società e la società
al femminile fossero entità separate.
Ma qui non si tratta di studiare un algoritmo. Qui si tratta
di sfruttare il talento, la conoscenza, la capacità, il merito,
la diversità, nell'interesse di tutti. Non è la conquista
di posizioni di potere e di leadership: è la scommessa
del cambiamento proposto dalla società digitale, con tutti
i suoi limiti e iperboli ma anche con quelle che sembrano
essere oggettive opportunità-di-pari-opportunità, abilitate
dall'apparente asessualità del codice binario.
La svolta è possibile, se le ragazze adesso, immediatamente,
capiscono che sta a loro scegliere di percorrere strade
in cui la necessità di competenze e capacità è semplicemente,
oggettivamente maggiore e più urgente del retaggio della
discriminazione. Alla nascente industria del digitale, dell’analisi
dei dati, dei modelli predittivi servono scienziati preparati,
intelligenti, in grado di cambiare i paradigmi e, perché no?,
portatori di quella competenza, propria del femminile,
che si forma nell'abitudine a occuparsi delle cose della vita,
a saperci stare dentro.