Egea


 

Il dollaro è la lingua franca della finanza, il pilastro invisibile che regge i mercati, la moneta che decide il prezzo del petrolio, delle materie prime e spesso anche il destino delle economie nazionali. Ma come è nato questo impero? E quanto può durare? Kenneth Rogoff ripercorre la traiettoria del “biglietto verde”, da quasi un secolo ago della bilancia della politica globale.


C’è una domanda che attraversa silenziosamente ogni crisi finanziaria, ogni summit internazionale, ogni innovazione tecnologica destinata a ridefinire il nostro rapporto con il denaro: il dominio del dollaro americano è destinato a durare per sempre, o stiamo assistendo ai primi scricchiolii di un impero monetario che ha segnato gli ultimi ottant’anni? Mai come oggi questo interrogativo appare urgente. Le tensioni geopolitiche e commerciali che hanno scosso l’ordine internazionale – tra guerre dei dazi, sanzioni economiche, riorientamenti strategici e una diplomazia statunitense sempre più assertiva – sembrano, paradossalmente, rafforzare il ruolo del dollaro come rifugio globale, punto di riferimento per investitori e governi. Ma fino a quando? Le stesse tensioni che oggi ne alimentano la forza potrebbero, nel lungo periodo, incrinare la fiducia internazionale e aprire la strada a nuovi equilibri monetari. Nel libro “L’impero del dollaro” (Egea, 2025), Kenneth Rogoff – docente ad Harvard, già capo economista del Fondo Monetario Internazionale – ci accompagna in un viaggio tra storia, economia e geopolitica, svelando i meccanismi che hanno reso il dollaro la valuta egemone e interrogandosi sul suo futuro.
 
Il dollaro non è diventato la valuta del mondo per caso. Dal secondo dopoguerra a oggi, la moneta americana ha saputo imporsi grazie a una combinazione unica di potere economico, stabilità politica, capacità di innovazione e – non da ultimo – una sapiente gestione delle crisi. Dal sistema di Bretton Woods alla fine della convertibilità aurea, dagli shock petroliferi degli anni Settanta alla globalizzazione finanziaria degli anni Novanta, il dollaro ha saputo adattarsi e rafforzarsi, diventando il “porto sicuro” per investitori, governi e banche centrali.
Questa egemonia, tuttavia, non è mai stata indolore: ogni crisi – dal default russo del 1998 alla grande recessione del 2008, fino alle recenti turbolenze dei mercati emergenti – ha messo alla prova la fiducia nel biglietto verde, costringendo gli Stati Uniti a difendere il proprio ruolo con decisioni spesso controverse.
 
Oggi, il dollaro rappresenta circa il 60% delle riserve valutarie mondiali, il 90% delle transazioni sul mercato dei cambi e resta la valuta di riferimento per il commercio internazionale. Le decisioni prese a Washington influenzano la vita quotidiana di miliardi di persone: dal costo dei mutui alla stabilità dei risparmi, dal prezzo della benzina alle crisi del debito nei Paesi in via di sviluppo. Il dollaro è la moneta con cui si misura la ricchezza globale, ma anche la leva con cui si esercita il potere geopolitico. E in un mondo sempre più multipolare, la sua centralità è al tempo stesso una garanzia e una fonte di incertezza.
Rogoff non si limita a celebrare il primato americano: ne analizza con lucidità i punti di forza e le vulnerabilità, smontandone i luoghi comuni. Il dollaro non è forte solo perché “tutti lo usano”, ma perché dietro c’è una macchina politica, diplomatica e finanziaria che lavora senza sosta per difendere il primato americano. Eppure, avverte l’autore, la storia insegna che ogni impero monetario – dal fiorino di Amsterdam alla sterlina britannica – ha avuto un inizio e una fine.
 
Oggi il dollaro è forte perché gli Stati Uniti sono ancora la più grande economia del mondo, perché il loro mercato finanziario è il più profondo e liquido, perché la fiducia nelle istituzioni americane – pur tra mille crisi – resta elevata rispetto ai concorrenti. Allo stesso tempo, tuttavia, il debito pubblico americano cresce a ritmi insostenibili, la polarizzazione politica mina la stabilità interna e la capacità di innovazione tecnologica – un tempo esclusiva degli USA – è oggi contesa. Rogoff sottolinea come la “tirannia del dollaro” sia anche fonte di tensioni: per i Paesi emergenti, ad esempio, essere dipendenti dalla valuta americana significa essere esposti a shock esterni, fughe di capitali, crisi improvvise.
 
Eppure, nessuna alternativa – né l’euro, né lo yuan, né le criptovalute – sembra davvero in grado di sostituire il biglietto verde nel breve periodo. La Cina spinge per l’internazionalizzazione dello yuan, costruendo infrastrutture finanziarie alternative e stringendo accordi bilaterali che aggirano il dollaro, ma la mancanza di mercati aperti e profondi, la presenza di controlli sui capitali, il rischio politico e la fiducia ancora limitata nelle istituzioni del Dragone ostacolano un’affermazione globale della sua valuta. L’Unione Europea cerca di rafforzare l’euro, ma fatica a superare le divisioni interne e a offrire la stessa profondità di mercato. Nel frattempo, le criptovalute – dal Bitcoin alle valute digitali delle banche centrali – promettono di cambiare le regole del gioco, sebbene la loro volatilità e la mancanza di governance ne limitino, almeno per ora, il ruolo sistemico.
 
Il dollaro dominante potrebbe essere prossimo alla metà del suo corso, ma gode ancora di buona salute”, scrive l’autore.Ci sono stati momenti in cui le cose sarebbero potute andare molto diversamente, nel senso che avrebbero potuto condurre a un mondo molto meno dollaro-centrico; e questo può aiutarci a capire perché anche questa resti una distinta possibilità, in futuro”.
 
E chissà che forse, domani, il vero rischio perla supremazia del dollaro non provenga dai rivali esterni, quanto dall’interno. Ad esempio, nella capacità del governo e della banca centrale Usa di conservare quel ruolo di àncora di stabilità che ha consentito agli Stati Uniti di beneficiare per un lungo periodo storico di un vantaggio nel sistema monetario internazionale.
 
Se non si imparasse proprio nient’altro dalla disamina dell’evoluzione del sistema valutario globale negli ultimi sette decenni”, conclude Rogoff, “una cosa non sarebbe in ogni caso in discussione: ossia che possono verificarsi, e di fatto si verificano, cambiamenti sorprendenti. Se la politica del debito degli Stati Uniti continua a scontrarsi con l’aumento dei tassi di interesse reali e l’instabilità geopolitica, e se le pressioni politiche limitano la capacità della Federal Reserve di contenere l’inflazione, il problema sarà di tutti”.

 


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