Egea

Nel libro edito da Bocconi University Press, Elena Esposito ci invita a considerare la rivoluzione innescata dall’IA da un altro punto di vista. Non chiederci se e come le macchine siano diventate più intelligenti di noi, ma capire come intervengono nella comunicazione

 
Rispondono alle nostre domande, fanno conversazione, compongono musica, leggono libri e scrivono testi interessanti, appropriati e – se occorre – anche divertenti. Nel frattempo generano informazioni in modo rapidissimo e preciso, stanno imparando a guidare le macchine in maniera più sicura e affidabile degli autisti professionisti e ce la mettono tutta per predire il futuro. Di chi stiamo parlando? Ma degli algoritmi che lavorano con il deep learning e i big data, naturalmente. Grazie ad essi, le “macchine” stanno migliorando così tanto nel fare così tante cose da metterci a disagio, ed è così che si fa strada una domanda spinosa: non è che stanno diventando troppo intelligenti? Secondo Elena Esposito, tracciare questa sorta di analogia tra algoritmi e intelligenza umana è fuorviante

Oggi ciascuno di noi comunica abitualmente con dei programmi automatizzati (dei bot) senza badarci: quando compriamo online i biglietti d’aereo, quando chiediamo assistenza sul web, giochiamo ai videogame e in molte altre occasioni. Ciononostante, quando riflettiamo e dibattiamo sugli algoritmi, discutiamo ancora della possibilità che possa arrivare una singolarità tecnologica o una super-intelligenza che superi le capacità umane. Ci confrontiamo con le macchine e non ci piace che vincano loro. Ma è davvero di questo che ci dobbiamo preoccupare?

Professoressa di Sociologia dei processi culturali e comunicativi presso le Università di Bielefeld (Germania) e Bologna, Esposito si approccia alla rivoluzione innescata dall’IA con una visione diversa da quella comune.  Se le macchine contribuiscono all'intelligenza sociale non è perché hanno imparato a pensare come noi, ma perché hanno imparato a partecipare alla comunicazione. Dobbiamo quindi pensare alle macchine "intelligenti" non in termini di intelligenza artificiale ma in termini di comunicazione artificiale. E per fare questo abbiamo bisogno di un concetto di comunicazione che sappia prendere in considerazione la possibilità che il partner con cui interagiamo non sia un essere umano ma un algoritmo
Partendo da questa premessa, il saggio indaga l'uso degli algoritmi in diverse aree della vita sociale, approfondendo temi come la proliferazione di liste online (fondamentali per il funzionamento del web), l'uso della visualizzazione, la profilazione digitale e l'individualizzazione algoritmica – che personalizzano un medium di massa con playlist e raccomandazioni – fino ad arrivare al nuovo orizzonte della ricerca sulle forme artificiali di intelligenza: la previsione algoritmica.

Il fatto che possiamo comunicare con le macchine”, spiega Esposito, “non implica che esse abbiano una loro intelligenza che deve essere spiegata, ma che, innanzitutto, la comunicazione sta cambiando. L’oggetto di questa ricerca non è l’intelligenza, che è e rimane un mistero, ma la comunicazione, che possiamo osservare e di cui sappiamo già molto. Occorre un concetto di comunicazione che sia in grado di tener conto anche della possibilità che il partner comunicativo non sia un essere umano ma un algoritmo. Il risultato, che può essere osservato già oggi, è una condizione in cui disponiamo di informazioni di cui spesso nessuno può ricostruire né comprendere la genesi, ma che ciononostante non sono arbitrarie. Le informazioni generate autonomamente dagli algoritmi non sono affatto casuali e sono del tutto controllate, ma non dai processi della mente umana. Come possiamo controllare questo controllo, che per noi può essere anche incomprensibile? Questa è, a mio parere, la vera sfida che ci pongono oggi le tecniche di machine learning e l’uso dei big data”.


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