Egea

 

Innovative, internazionalizzate ma radicate nel proprio territorio, patrimonialmente solide e green: nel suo nuovo libro, Roberto Mania ci accompagna alla scoperta delle imprese familiari che hanno rilanciato il capitalismo italiano nell’era della globalizzazione.
 

Cercavamo l’America, abbiamo ritrovato l’Italia, quella delle medie (e anche grandi) imprese perlopiù familiari; non le grandissime aziende e tanto meno le public company. In silenzio, lontano dai riflettori, il capitalismo italiano ha scelto – o accettato – il suo modello. Ma quali sono le nuove famiglie del capitalismo tricolore dopo gli Agnelli, i Pirelli, i Pesenti? E anche dopo i Berlusconi, i De Benedetti, i Benetton, i Ferruzzi? In un nuovo saggio edito da Egea, il giornalista Roberto Mania accompagna i lettori alla scoperta dei “Capitalisti silenziosi” che, quasi senza che ce ne accorgessimo, hanno cambiato il tessuto produttivo del Paese permettendogli di competere nelle acque (sempre più) agitate del mondo globalizzato.

La rivoluzione del quinto capitalismo italiano è iniziata sottotraccia. Allo spontaneismo disordinato che aveva guidato il contraddittorio boom degli anni Ottanta, con rapporti a tratti incestuosi con la finanza e la politica, si è sostituito un sistema strutturato di medie-grandi imprese, innovative, globalizzate (per quanto radicate nel locale, nei piccoli centri più che nelle grandi aree urbane), patrimonialmente solide, digitalizzate, tendenzialmente green, capaci di trascinare con sé una larga fetta dei subfornitori di piccola dimensione. E soprattutto, nella stragrande maggioranza dei casi, a salda proprietà familiare.
Anello forte della società, la famiglia è anche protagonista principale del sistema produttivo. È da qui, infatti, che arriva complessivamente quasi la metà della produzione industriale nazionale. Oltre l’80% delle imprese italiane è a controllo familiare, una quota superiore rispetto a quella degli altri Paesi europei. Sono queste aziende la spina dorsale del Made in Italy con più di 2,5 milioni di dipendenti. E poi ci sono le “eccellenze”, il fulcro del riscatto del capitalismo familiare, quelle oltre quattromila medie-grandi imprese manifatturiere che di fronte alla crisi provocata dalla pandemia hanno dimostrato di saper reagire meglio delle altre, adattandosi più rapidamente al nuovo scenario, salvaguardando l’occupazione e mantenendo le fabbriche aperte nel segno della resilienza.

Non era affatto scontato che ciò accadesse, invece è stata la rivincita dal capitalismo familiare. E anche la chiusura della stagione dell’affannosa ricerca di un altro modello, importato o copiato da altri. Non c’è (quasi) più la mega azienda privata e l’interventismo statale riemerge più per gestire l’emergenza perpetua che per opzione strategica. Il cosiddetto «quarto capitalismo», figlio naturale dei nostri distretti industriali, è diventato maturo: così stiamo passando ormai al «quinto capitalismo», con la politica del tutto distratta e gli industriali disincantati ma forti nel proprio business. È il nuovo “modello italiano” ed è, secondo Mania, un capitalismo silenzioso.

Questo non è il vecchio capitalismo familiare che ritorna”, assicura l’autore. “Questa è un’altra storia che merita di essere raccontata. Raccontata anche con la voce dei protagonisti, forse per la prima volta. Un racconto corale. Cosa pensano, allora, della famiglia, della loro famiglia, i capitalisti della terza o quarta generazione? Perché, la famiglia, da zavorra per lo sviluppo, per via anche dell’italico familismo amorale, si è trasformata in un fattore di competitività globale? Cos’è cambiato e come è cambiata la famiglia-imprenditrice?

E chi sono, i neocapitalisti familiari? Oggi, racconta Mania, si chiamano – tra gli altri – Bombassei, Fumagalli Romario, Illy, Squinzi, Rana, Marcegaglia, Nocivelli, Bauli, Lunelli, Barilla, Garrone, Scavolini, Vacchi, Ferrero, Bonfiglioli. Parlano poco e solo delle proprie aziende, disdegnano la politica, non amano la finanza ma qualche volta rischiano la quotazione in Borsa. Si sono aperti ai manager esterni e competono con qualità nei mercati globali, concentrandosi sui loro settori tradizionali senza cercare improvvisate diversificazioni. Reinvestono gli utili nella crescita aziendale. Hanno studiato, sono europeisti e antipopulisti, ma non sono i nuovi poteri forti. Così sono riusciti a trasformare (da tempo) le proprie aziende in multinazionali tascabili, rafforzandole e passando finora indenni dalle guerre ereditarie.
Questo modello non prevede leadership e nemmeno – se si può dire – una «consapevolezza di classe». C’è senso civico ma anche tanto individualismo ereditato. E, soprattutto, un legame profondo con il proprio territorio, dove spingono anche le imprese più piccole.

Può apparire retorico”, commenta Mania, “ma quella dell’impresa familiare diventa di frequente una comunità allargata nella quale ciascuno ritrova la propria identità. Un processo di osmosi certamente originale che ha pochi riscontri fuori dai nostri confini nazionali. È proprio nel territorio che questo capitalismo familiare diventa classe e riesce a coabitare con le istituzioni e con i rappresentanti della politica in maniera soddisfacente, perseguendo obiettivi comuni, facendo coesistere, dunque senza conflitto, gli interessi collettivi con quelli imprenditoriali. Non è l’Eden, ma un modello pacifico di relazione tra capitale e lavoro, qualcosa che si avvicina a un capitalismo dal volto umano o a un capitalismo buono. Un capitalismo che fa politica investendo, creando opportunità di sviluppo e di lavoro, ma che non ama la politica o almeno la politica degli ultimi decenni, verso la quale il disincanto è pari a quello degli altri cittadini”.

Il capitalismo italiano, insomma, è cambiato “mentre la politica cerca ancora una via d’uscita dal tunnel in cui è entrata dopo la fine della prima Repubblica, rendendo pericolosamente più fragile la nostra democrazia rappresentativa. Bisognerebbe”, suggerisce Mania, “uscirne insieme, politica e società civile. Con questi imprenditori, con una loro rinnovata responsabilità di classe. Quella di una nuova borghesia produttiva”.



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