Egea

Il progetto le infiltrate







 

"Le infiltrate" di Nicola Palmarini non è solo un libro: è un progetto culturale, legato ad un'area web dedicata.



Un estratto del libro

Nonostante tutto il tecno bla-bla che ci martella il capo, incredibilmente oggi in America le laureate in Computer Science sono il 12% del totale mentre nel 1984 erano il 37%, secondo i dati di girlswhocode.com, la non profit fondata nel 2012 dall’avvocato donna Reshma Saujani per incoraggiare le ragazze agli studi di tecnologia. Gli uomini hanno di nuovo fatto bingo. Hanno fregato le ragazze proprio lì, dicendo loro: ma no ragazze, voi non siete portate per questo, che noia queste sequenze di numeri, non contano nulla, non servono a nulla. Non vorrete mica diventare delle nerd con gli occhiali appannati e la pelle grassa dalla mancanza di ossigeno in un sottoscala di un centro di ricerca (perché è lì che finirete)?! Non vedete che dovete puntare alla leadership dove vi stiamo fregando da sempre? È un mondo top-down e sarà sempre così. Per cui concentratevi là, andate là a cambiare il mondo.

Se parliamo di leadership, che leader vogliamo essere, che leader vogliamo diventare? La vera domanda è questa. Perché se i leader saranno gli stessi che abbiamo avuto fino a ieri e i loro comportamenti esattamente gli stessi, solo di sesso diverso, bene, allora qualcuno dovrebbe venirci a spiegare dov’è, dove sarebbe, e soprattutto dove sarà la differenza. Se per molte l’autodeterminazione è ancora, come mi racconta la Zanardo quando la intervisto nel centro di Milano, «faccio tutto come un uomo, quindi valgo», se l’immagine è quella della manager che mette le riunioni alle 8 del mattino per apparire cazzuta quanto il suo capo e sfidare tutte le mamme obbligate a portare i figli a scuola, appare chiaro che rimarremo chiusi in un circuito che difficilmente porterà a un qualsivoglia cambiamento. «Al di là di questo “regime della visibilità”, totalmente interno al potere, molte donne sono alle prese con ben altri problemi, fra cui quello della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro molto poco sostenuta dal welfare contemporaneo.»

E proprio qui alcune hanno capito che l’errore di crogiolarsi sul (tangibile, ma subdolo) terreno della discriminazione e del suo conseguente assestarsi sulle barricate delle quote potrebbe essere fatale. Hanno capito che l’autodeterminazione, la lotta muro contro muro, l’isolamento sole-in-cima-alla-vetta non erano le uniche vitamine per raggiungere un «successo». Hanno soprattutto capito che il «successo» come l’hanno inventato e disegnato gli uomini non era necessariamente lo stesso successo che interessava loro. Hanno capito che, anziché cercare di «vincere» una battaglia che ha interessato solo gli uomini e alla quale intere generazioni di donne hanno cercato di adeguarsi, ha decisamente più senso «fare la differenza» senza nemmeno entrare in quella guerra, ma spostando le regole del gioco su un piano ben diverso e molto più produttivo in termini di valori del sé e di bene per la comunità.
Ma il tempo corre veloce. Corre inesorabile. Corre affamato e allenato per prendersi tutto secondo le vecchie regole scritte dai soliti noti. Va fatto capire oggi, subito, adesso – soprattutto alle ragazze più giovani – che, nonostante il devastante buco nero culturale, l’ignoranza dei loro genitori, l’assenza di modelli, il silenzio della politica, il limitato supporto della scuola esistono territori in cui poter costruire quella differenza, prima di tutto per il contesto sociale in cui vivono loro, i loro compagni e le loro compagne, in cui vivranno i loro figli. Questi territori sono ancora dei semplici abbozzi, sono delle linee incerte tracciate su mappe di lontanissimi West digitali ancora da collocare, inventare, scoprire. Deserti in cui le traversine delle ferrovie immaginate dagli uomini, così rigide e prevedibili, non sono ancora arrivate con le loro regole a stabilire tutti i dogmi possibili, in cui le stazioni non sono ancora state costruite, le città attorno a loro nemmeno immaginate. Va fatto capire alle ragazze di questo secolo ancora così indeciso che la partita in gioco è molto più grande, importante e ancora possibile da indirizzare rispetto a quella di una mera fetta di leadership, come invece continuano a sostenere le instancabili carrieriste. Va fatto capire loro che hanno la dignità e la capacità per partecipare a una partita ancora aperta, nonostante tutti si affannino a dimostrare il contrario.

Se vogliamo credere alla possibilità di un futuro sostenibile, se crediamo alla finitezza delle risorse naturali, se crediamo che un sistema sociale più equo e inclusivo sia possibile, se immaginiamo nuovi sistemi di relazione, se lo scenario di un’economia partecipata è davvero possibile, se pensiamo che crescita non significhi crescitismo, se siamo davvero convinti di tutto questo e pensiamo che questa stagione sia lì lì per manifestarsi e che il codice binario, la tavola periodica degli elementi, le funzioni complesse siano il linguaggio neutrale e universale per poterla narrare, nulla – nemmeno la massima fallocentrica possibile ottusità – potrà vietare di credere che questa possibilità possa essere realizzata dalle donne di oggi e dalle ragazze di domani. La storia del nostro piccolo mondo non ha mai dato modo alle donne di provare la reale portata della loro visione, la potenza della loro logica e la forza del loro punto di vista: perdere anche solo di mettere alla prova questa occasione sarebbe devastante.
In gioco non c’è solo la parità dei diritti, la possibilità di scegliere che vita vivere, l’esplorare percorsi sconosciuti, in gioco c’è il futuro dell’umanità.